Poesia e destino, storia del gioiello

20.06.2017


Il poeta latino Properzio dichiara in apertura di libro di non approvare che Cinzia ritocchi il suo aspetto con mezzi d'accatto. La bellezza, infatti, non ha bisogno di artifici. Che tra questi - acconciature ricercate, profumi o rientali e abbigliamento lussuoso - ci siano anche i gioielli si ricava da un verso in cui il poeta nota che le spiagge strappano la nostra ammirazione per i loro sassi nativi. Ugualmente, dobbiamo intendere, una donna non acquista piacevolezza per mezzo di pietre prese in prestito. 

I gioielli sono metafore o simboli. Un gioiello è sempre qualcos'altro; e in nome di quel «qualcos'altro» va desiderato o donato. Collezionarne per puro gusto di collezione o per brama di possesso è costume diffuso da sempre ma banalizzante, perfino deplorevole. Come raccontano varie fonti antiche, Tarpea, che fu disposta a tradire i romani per avere i bracciali dei nemici, finì in un burrone. 

A proposito: «gioiello» è termine moderno. L'italiano e l'inglese l'hanno preso dal francese antico ed è ancora dibattuto se quest'ultimo l'abbia derivato dal latino gaudium, «gioia», o iocus, «gioco». Il latino parla genericamente di «ornamenta» (i famosi gioielli di Cornelia, ovvero i Gracchi, suoi figli, sono appunto indicati con questa parola da Valerio Massimo) oppure di articoli singoli: armillae (braccialetti), anuli (anelli), monilia (collane), ecc. Nella Divina Commedia troviamo un'interessante e, forse, istruttiva ambiguità semantica nell'utilizzo della parola «gioia», che nel resto del poema ha sempre il significato di «letizia»: «Ben supplico io a te, vivo topazio / che questa gioia prezïosa ingemmi, perché mi facci del tuo nome sazio». Siamo nel canto XV del Paradiso e il pellegrino sta parlando all'antenato Cacciaguida, del quale ignora ancora l'identità. Questa gaudiosa porzione del cielo, dunque, è un diadema («gioia preziosa») e Cacciaguida ne è una gemma. 

Interessante è pure che Cacciaguida sia designato come «vivo topazio», pietra che simboleggia eccellenza intellettuale e santità. E con valore analogo compaiono nel poema dantesco, che può dirsi una ben fornita gioielleria, rubini, smeraldi, diamanti e molto ancora. L'associazione tra eccellenza individuale e gioielli, d'altronde, è comune già nella poesia pagana. Nell'Odissea i proci danno spille, collane e orecchini a Penelope e nell'Eneide Enea offre collane d'oro e una corona a Didone non perché si facciano belle, ma perché sono regine. 

L'oro e le gemme servono a riverire il rango. Il cristianesimo pone il rango nello spirito ed ecco che i gioielli si spiritualizzano, come mostra chiaramente il caso di Dante. In un passo famoso del Vangelo secondo Matteo, che spesso si cita senza prestare attenzione alla complessità culturale dell'immagine, Gesù esorta i discepoli a non gettare le loro perle ai porci (neque mittatis margaritas vestras ante porcos), intendendo dire che non si deve sprecare il proprio valore umano a contatto con persone (i pagani nella fattispecie) che non saprebbero riconoscerlo e potrebbero addirittura oltraggiarlo. Qualcosa di simile, però, già si ha nel pensiero precristiano, in Platone, per esempio, il quale fa dire a Socrate che il suo oro, cioè la sua anima, non può essere scambiata con il bronzo di Alcibiade, ovvero la volgare disponibilità sessuale. Le perle ritornano in Petrarca come metafora dei denti di Laura.
Nonostante un tale abbassamento di categoria, non dobbiamo pensare che la valenza dell'originaria metafora sia del tutto obliterata. Laura, anche se prefigura la vamp, è pur sempre una santa donna. E così nello stesso Petrarca i diamanti e l'oro e il topazio continuano a significare una perfezione o intransigenza morale non comune (la fortuna vorrà che il «diamante in mezzo 'l core» del sonetto 155 riaffiori secoli dopo, con ulteriore declassamento, in una canzone di Mia Martini). Nella poesia d'amore antica i gioielli erano pegni. Si veda la chiusa della stupenda ode oraziana del Soratte. In quella moderna si svincolano dalla promessa e diventano veri e propri feticci. Anche l'anima, specie quando c'entra l'amore, è oggetto e, in quanto tale, può avere i suoi sostituti. La feticizzazione si estremizza e confeziona paradigmaticamente in Baudelaire. Nella poesia che si intitola appunto Les bijoux la donna compare vestita unicamente dei suoi gioielli. Emily Dickinson ripropone l'equivalenza amore-gioiello, che piacque anche allo Shakespeare dei sonetti (si veda il 52). 


Però, siccome a lei l'amore si nega, gioiello le rimane il rimpianto: gioiello particolare, un'ametista, la pietra che, secondo l'etimologia, protegge dall'ubriachezza (così già in un epigramma di Asclepiade di Samo o di Antipatro di Tessalonica, che descrive l'anello di una certa Cleopatra). Non a caso l'ametista torna in una poesia di un'altra grande americana, Elizabeth Bishop, The Sandpiper: non più a significare l'amore, ma la materia preziosa del linguaggio, con rinvio cifrato all'alcolismo dell'autrice. 

Perché il gioiello è anche questo, nelle reinvenzioni dei poeti: destino segreto, idolo dai messaggi difficili, però vitali e perfino salvifici, come nel sonetto di Montale Gli orecchini, culmine di tutta una tradizione che ha tentato di mettere d'accordo materia e interiorità nel nome di un valore assoluto.

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